e inclusivo.

Cambiare rotta sul mercato del lavoro per affrontare l’emergenza salariale e le trasformazioni della società, mettendo in condizioni giovani e donne di lavorare, soprattutto nel Mezzogiorno. È questa in estrema sintesi la ricetta di Maria Cecilia Guerra, responsabile Lavoro del Partito democratico, con cui abbiamo avuto il piacere di dialogare. L’ex sottosegretaria al Lavoro ha elencato le priorità da affrontare e sottolineato le criticità dell’attuale governo, evidenziando le misure presenti nella manovra alternativa del Partito democratico. Dai motivi per cui è cruciale la battaglia del salario minimo (“sotto una certa soglia per noi è sfruttamento”) ai provvedimenti che possono rendere più eque e inclusive le trasformazioni del mercato del lavoro, fino alla riforma fiscale (“alimenta le differenze fra chi le tasse le paga e chi no”). Con un passaggio sulle mancate promesse sulle pensioni da parte di un governo (“si stanno rendendo più stringenti le regole di accesso”).

Onorevole Guerra, il Partito democratico ha lanciato una manovra alternativa in cui è centrale il rilancio del lavoro. Quali sono le tre azioni da intraprendere immediatamente?

In Italia c’è una emergenza salariale. Siamo l’unico paese Ocse nel quale, fra il 1990 e il 2020, il salario medio annuale reale è diminuito (-2,9%). In tutti gli altri è cresciuto, con aumenti superiori al 30% in Francia e Germania. Negli anni recenti di forte inflazione, salari e stipendi reali hanno continuato a calare, soprattutto a causa del mancato rinnovo dei contratti, che interessa 6,7 milioni di dipendenti, prevalentemente nei servizi e nella pubblica amministrazione. Per questo nella nostra manovra alternativa, per quanto riguarda il lavoro, rilanciamo con forza la proposta di legge su salario minimo e equa retribuzione e proponiamo il riconoscimento obbligatorio di un’indennità di vacanza contrattuale, indicizzata ai prezzi, nel settore privato come in quello pubblico. In modo tale che la resistenza nei confronti dei rinnovi contrattuali non sia più lo strumento utilizzato per non aggiornare le retribuzioni all’inflazione. Inoltre, dato che il mercato del lavoro è attraversato da profonde trasformazioni, digitale ed ecologica, che richiederanno riconversioni impegnative delle attività produttive, proponiamo una cassa integrazione che tenga conto della durata di questi processi. Oltre all’eventuale necessità che essi comportino un cambio di proprietà dell’azienda. Ci battiamo cioè per una transizione giusta, che non faccia ricadere i costi sulle spalle dei lavoratori e delle lavoratrici.

Un lavoro buono è quello che viene retribuito adeguatamente, eppure il governo continua a scegliere di non occuparsi di salario minimo. Ci spiega perché è così cruciale questa battaglia?

Sono più di 3,2 milioni i lavoratori con retribuzione tabellare oraria inferiore ai 9 euro lordi. Sotto quella soglia per noi non è lavoro, è sfruttamento. La nostra battaglia per retribuzioni eque e per un salario minimo definito per legge, richiede che a chi lavora, in qualsiasi settore economico e con qualsiasi contratto, sia riconosciuto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative, con un minimo tabellare mai inferiore ai 9 euro. Una proposta che mette fine ai contratti pirata, agli appalti e subappalti e alle esternalizzazioni finalizzate a cercare modi per pagare poco i lavoratori. Dopo mesi passati a lanciare la palla in tribuna, la maggioranza non ha avuto neppure il coraggio di bocciare la nostra proposta e ha approvato una delega al governo. Avevano ripetuto e ripetuto di volere rafforzare la contrattazione, ma il principio cardine della loro delega è invece la negazione del ruolo dei contratti delle organizzazioni più rappresentative, a favore di quelli più applicati. In questo modo domani le organizzazioni datoriali potranno scegliersi il sindacato con cui firmare il contratto, anche se ha magari pochissimi iscritti, e quel contratto pirata diventa quello a cui attenersi per il minimo salariale da garantire ai lavoratori. Un attacco alla democrazia e uno sputo in faccia ai lavoratori.

Da più parti si evidenzia la mancanza di una politica industriale in un Paese che sembra andare sempre più verso terziario, turismo, servizi, ristorazione, che ci inchiodano a una bassa produttività. Cosa andrebbe fatto per creare un lavoro qualitativamente alto?

Due punti, in estrema sintesi. In primo luogo è necessario abbandonare un modello di sviluppo fondato sulla compressione dei salari per cercare di essere competitivi. Un fenomeno che, trasferito nelle filiere produttive, come agricoltura e logistica, porta a sistemi di caporalato e di moderna schiavitù, soprattutto negli ultimi anelli della catena. Bisogna puntare invece sul sostegno all’innovazione tecnologica delle nostre imprese, che devono crescere dimensionalmente o quanto meno operare in rete per reggere l’urto della concorrenza. Come secondo punto vanno impostate politiche industriali, a partire dai settori più esposti, come ad esempio l’automotive, dove il sostegno alle imprese sia condizionato all’effettuazione di investimenti qualificati che aiutino la transizione. E alla definizione dei piani industriali devono concorrere le istituzioni e le parti sociali, sia datoriali sia sindacali.

Poi ci sono le differenze, quelle territoriali e quelle di genere. Senza Sud e senza donne l’Italia può farcela? In quale direzione stiamo andando?

È forte la preoccupazione per l’inverno demografico, ma abbiamo bacini di potenziale forza lavoro che non sono messi nella possibilità di lavorare. È vero per il sud, al quale si vogliono ridurre i servizi essenziali, comprese infrastrutture e trasporti, con la dissennata autonomia differenziata, e con la scelta di mettere un sacco di soldi su una unica, discutibile, opera: il ponte sullo stretto. È vero per i giovani, umiliati nel loro ingresso sul mercato del lavoro dall’offerta di lavori precari e mal pagati, spesso in grigio, e da finti stage. È vero soprattutto per le donne, su cui grava in maniera squilibrata il lavoro domestico e di cura, per le quali esiste, soprattutto se madri, se giovani e se a sud, perché le discriminazioni si sommano, una vera e propria barriera ad un ingresso dignitoso sul mercato del lavoro.

Tema pensioni. La destra aveva promesso che avrebbe cancellato la legge Fornero, ma una volta arrivata al governo sta agendo al contrario, cancellando anche le tutele previste ad esempio per le donne. È così?

Sì. La promessa di “abolire la legge Fornero”, colpevole, soprattutto, di avere alzato l’età pensionabile, senza nessuna flessibilità di uscita, è stata totalmente disattesa con la Legge di Bilancio per il 2024. Il governo fa l’esatto opposto: rende più stringenti le regole di accesso a tutti i canali di anticipo pensionistico in vigore nel 2023. Particolarmente forte è la stretta su Opzione Donna, che già aveva subito una sforbiciata significativa da questo stesso governo l’anno scorso. Ma vale anche per Ape sociale, quota 103, per chi matura la pensione interamente nel contributivo, e per chi vorrebbe avvalersi dell’anticipo ordinario. Per non parlare poi dei 732 mila dipendenti pubblici, fra cui medici e infermieri, per i quali vengono modificati i criteri di calcolo della pensione. Una scelta che avrebbe potuto comportare un taglio che, per una retribuzione di 40 mila euro lorde, poteva raggiungere i 6 mila euro all’anno. Una cosa talmente clamorosa che hanno poi dovuto metterci una pezza, che è però un rimedio solo parziale. Oppure della indicizzazione solo parziale, per fare cassa sulle pensioni.

In materia fiscale arriva una riforma che, tra le altre cose, consolida e amplifica la differenza fra lavoratori autonomi e dipendenti. Oltre a essere evidentemente iniqua, sembra anche anticostituzionale…

Noi ci battiamo per l’equità orizzontale: soggetti con lo stesso ammontare di reddito dovrebbero pagare la stessa imposta. Nel nostro sistema fiscale sono invece fioriti numerosi regimi speciali riservati a questa o quella categoria di reddito (o a particolari porzioni dello stesso reddito). Fra questi regimi, che interessano molti redditi finanziari e di capitale, rientra anche il regime forfetario, ad aliquota piatta, per i redditi di lavoro autonomo e piccola impresa. Inizialmente pensato per semplificare gli oneri contabili a soggetti molto piccoli è stato invece esteso da questo governo fino ad un ammontare di ricavi pari a 85.000 euro. Se si aggiunge che chi rientra in questo, come negli altri regimi speciali, non paga neppure le addizionali Irpef al proprio comune e alla propria regione, si ha che per ricavi prossimi al tetto, e soprattutto per i professionisti, che hanno minori costi di produzione, il risparmio fiscale, a parità di reddito, rispetto a quel che paga un lavoratore dipendente o un pensionato in Irpef può arrivare fino a 10mila euro. Una situazione profondamente illogica ed iniqua che viene peggiorata dalla delega fiscale che estende ulteriormente i regimi differenziati e di privilegio. Oltre ad alimentare le differenze fra chi le tasse le paga e chi no, con una fila di condoni di cui si è ormai perso il conto.

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