Il governo risponde con slogan e tagli.

“Nulla è più ingiusto che far parti uguali fra disuguali”, diceva Don Lorenzo Milani. Una frase all’apparenza semplice, che però spiega, molto bene, quanto costruire un sistema scolastico giusto, efficace e che non lasci indietro nessuno sia un lavoro difficile e complicato, che necessita di idee, strategie, intuizioni e investimenti. Il nostro Paese vive ormai da anni un’emergenza educativa che richiede uno sforzo straordinario per essere affrontata e debellata. Ne parliamo con Irene Manzi, deputata del PD e responsabile Scuola, Educazione dell’infanzia, Istruzione, Povertà educativa nella segreteria nazionale del Partito.

Nel nostro Paese aumentano i divari territoriali, i dati relativi alla povertà educativa e alla dispersione scolastica sono allarmanti. Tutto questo, almeno a giudicare dalle scelte e dagli investimenti fatti, non sembra essere tra le prime preoccupazioni del governo Meloni. Come giudica l’operato dell’esecutivo su questi temi, almeno fino ad oggi?

Nelle prime due leggi di bilancio del governo Meloni sono stati previsti purtroppo tagli significativi per l’istruzione con una pesante spending review. Nei prossimi tre anni ci sarà un taglio progressivo al budget del Ministero: un vero e proprio disinvestimento che certifica come questo esecutivo non sia interessato a mettere risorse per i giovani. La mancanza di fondi mortifica un settore che avrebbe bisogno di ben altro, alla luce dei dati allarmanti sull’aumento di divari e diseguaglianze. Per ora ci troviamo di fronte a una legge di bilancio che non prevede nuove risorse e dedica all’istruzione solo un singolo articolo, a un pesante dimensionamento della rete scolastica che riduce le autonomie con effetti penalizzanti nelle aree più fragili del Paese, pensiamo alle aree interne e al Mezzogiorno, al tentativo di regionalizzare l’istruzione attraverso l’autonomia differenziata, all’assenza di misure di contrasto del caro scuola che sta mettendo in difficoltà studenti e famiglie, a una rimodulazione del PNRR che taglia più di 100 mila posti negli asili nido e che si accompagna ai tagli fatti nella scorsa legge di bilancio alle risorse per il sistema 0/6. Mancano una visione ed una strategia complessiva. La lotta alla dispersione scolastica e alle povertà educative richiederebbe per prima cosa l’ascolto delle realtà che si occupano ogni giorno di contrastare questi fenomeni. Esiste un collegamento tra povertà materiale ed educativa che si può contrastare solo aggredendo alcuni deficit strutturali del sistema scolastico in termini di spazi, servizi e tempi educativi, come tempo pieno e mensa, palestre, agibilità delle scuole, presenza capillare di asili nido. Esiste una correlazione positiva tra la qualità dell’offerta in termini di strutture e tempo scuola e il livello di apprendimento conseguito dagli studenti. Quindi maggiori interventi strutturali, più insegnanti, presìdi territoriali e il rafforzamento della comunità educante con la costruzione di reti territoriali tra scuole, terzo settore, parrocchie, enti locali, fondazioni e il supporto di educatori, pedagogisti e assistenti sociali. Non esistono soluzioni facili per problemi complessi. Ma questo governo sembra molto interessato agli slogan anziché ad un lavoro lungo e strutturale.

Diceva qualche giorno fa la scrittrice Chiara Valerio sul palco della manifestazione del PD a Piazza del Popolo: “La scuola è il luogo dell’istruzione, del diritto all’istruzione. È il posto dove la cultura ramifica ed evolve.  Dove si impara che la cultura è come l’acqua per i pesci o l’aria per gli uccelli”. Una suggestione bellissima ma impegnativa, che richiede scelte radicali anche da parte della politica. Quali sono i fronti principali su cui occorre cominciare a lavorare per far tornare la scuola il centro nevralgico della crescita di cittadine, cittadini e dell’intera società?

Un Paese è la sua Scuola e la sua Università: sapere, conoscenza, emancipazione. Senza scuola, senza sapere e senza competenze di qualità, non c’è lavoro, non c’è futuro. In questo Paese stiamo perdendo questa consapevolezza: un fatto molto preoccupante per la qualità stessa della democrazia. La società della conoscenza per potersi realmente realizzare deve saper sviluppare e diffondere una preparazione sempre più innovativa e competitiva, deve saper passare dal principio giusto dell’istruzione per tutti a quello dell’istruzione su misura e per ognuno, garantendo così concretamente quel “diritto al successo formativo” che è principio che dovrebbe orientare l’azione del decisore politico. Serve un profondo processo di consapevolezza del Paese sulla centralità dell’istruzione e poi interventi consequenziali: quindi risorse adeguate a finanziare questo settore, in linea con l’Europa. Luigi Berlinguer, recentemente scomparso, ci lascia un grande insegnamento: non basta più garantire la facoltà di accedere alla scuola se essa è organizzata in modo tale continuare a riprodurre al suo interno marginalizzazione. Occorre mettere in campo una istruzione di qualità in grado di stimolare la creatività ed il ragionamento, di alimentare emozione e pensiero, di esprimere capacità di interpretazione del reale e della sua complessità, ora più che mai. La scuola deve trasformarsi sempre di più nel luogo delle differenze. Dove la diversità trova casa e si impara a convivere. Non a tollerare ma a fare tesoro, ricchezza. Anche per questo vanno cambiate le forme. Va dato più spazio all’arte, alla dimensione non solo del logos, alle competenze diverse di tipo emotivo, relazionale, a saper fare oltre che al saper dire o pensare. È una rivoluzione. Pedagogica, democratica, ecologica e si molto femminile se posso dirlo. E per farlo servono risorse, visone e coraggio. E mettere chi lavora nella scuola nella serenità professionale di mettersi in gioco. Ma ne va della nostra antropologia futura. Oggi esistono tanti ottimi esempi diffusi che andrebbero valorizzati e portati a sistema.

Dal governo, finora, abbiamo sentito tanta retorica sulle famiglie, ma poi, alla prova dei fatti, uno degli effetti della riscrittura del PNRR è il taglio di più di 100mila posti degli asili nido. In generale, oltre alla fascia 0-3 anni, è l’intera fascia 0-6 anni che sembra subire ancora più delle altre una mancanza di visione e di strategia. Cosa ne pensa?

Questo governo non sembra davvero interessato a promuovere i servizi educativi per l’infanzia. La legge di bilancio prevede un aumento – per un solo anno – del bonus nido a favore delle famiglie con più di due figli che però non sarà nemmeno in grado di assicurare la piena gratuità delle rette. E che soprattutto non tiene conto dei problemi di fondo che ci sono, a cominciare dalla non uniforme distribuzione e presenza dei servizi educativi su scala nazionale. Probabilmente per sostenere la natalità il Governo pensa che le donne debbano rimanere a casa: una ricetta già sperimentata in Ungheria. Nelle ultime due leggi di bilancio hanno anche tagliato le risorse destinate al Fondo per il Sistema Integrato da zero a sei anni che si aggiunge ai tagli prodotti dalla rimodulazione del PNRR. Abbiamo chiesto al governo di  conoscere in quali aree del Paese saranno i tagli che la proposta di rimodulazione del Piano produrrà. Tagli che, di fatto, impoveriscono il carattere sociale del piano e rischiano di aumentare il divario tra nord e sud. Il Governo fa finta di non sapere che gli investimenti precoci nella prima infanzia sono quelli a maggiore ritorno tra gli investimenti nello sviluppo umano. La frequenza al nido è uno dei mezzi più efficaci per combattere la povertà educativa, prevenire i bassi rendimenti scolastici e contrastare la dispersione scolastica. La presenza ai nidi favorisce la partecipazione delle donne al mercato del lavoro che dipende in modo considerevole anche dalla possibilità di accedere ai servizi educativi per la prima infanzia. Temo che questo governo non abbia gli strumenti o, ancora peggio, non voglia costruire una visione di lungo periodo: per noi l’accesso ai servizi educativi sin dai primi mesi di vita è un primo strumento di contrasto alle disuguaglianze sociali e culturali per molti bambini e bambine che vivono in situazione di disagio socio-economico e un sostegno per la conciliazione famiglia-lavoro. Noi abbiamo chiesto di incrementare il fondo nazionale per il sistema integrato per garantire la progressiva gratuità dei servizi educativi 0-3 anni, a partire dai nuclei familiari a basso Isee, con particolare attenzione all’offerta formativa nel Sud del Paese. Il governo risponde con i tagli.

Parlavamo prima di diritto allo studio e di divari territoriali. Praticamente tutte le statistiche fotografano una situazione molto diversa per la scuola a seconda dell’area geografica del nostro Paese in cui è inserita. Quali sono i rischi legato ad una regionalizzazione ancora più spinta, come quella che sarebbe (il condizionale è d’obbligo) introdotta dalla riforma dell’autonomia differenziata?

Questo governo sta mettendo in discussione il diritto allo studio. Siamo partiti con il dimensionamento scolastico che taglia circa 800 autonomie scolastiche con la scusa della denatalità, quando un piano davvero finalizzato al rilancio della scuola dovrebbe invertire questo processo e utilizzare il calo demografico per ridurre in modo significativo il numero di alunni per classe e investire sulla didattica. Il governo Meloni fa l’esatto contrario, aumentando le disuguaglianze. Eppure conosciamo tutti l’elenco dei divari nella filiera dell’istruzione, dagli asili nido, alla scuola, all’università, descritti dallo Svimez nell’ultimo rapporto. Sono dati che imporrebbero interventi per ridurre distanze e differenze mentre il governo, con l’autonomia differenziata “spacca Italia”, non farà che allargarli, creando nei fatti cittadini che godono di maggiori diritti rispetto ad altri. Il venir meno del “carattere nazionale” dell’istruzione e la conseguente regionalizzazione della Scuola rischia di minare, alla radice, le basi del diritto allo studio e di creare un vulnus profondo alla stessa identità culturale del Paese. Si pensi solo alla disciplina dell’obbligo scolastico, alle norme sulla parità tra istituzioni scolastiche (coinvolgente la determinazione dei requisiti per ottenere la “parità” e quindi, in definitiva, il rapporto fra scuola pubblica e privata), a quelle relative alle classi di concorso per gli insegnanti; ai curricoli didattici vigenti nei diversi ordini di scuole; ai criteri di formazione delle classi; ai criteri e parametri per la determinazione degli organici; l’integrazione degli alunni con bisogni educativi speciali, la formazione permanente, la prevenzione dell’abbandono e il contrasto dell’insuccesso scolastico e formativo. Settori fondamentali che incidono direttamente sul carattere nazionale dei servizi educativi. La creazione di sistemi regionali con risorse e regole differenziate penalizzerà le realtà che già hanno di meno, al nord come al sud. Si sta seriamente ipotecando il futuro del Paese.

C’è poi un tema legato al personale scolastico. Le retribuzioni dei docenti sono decisamente al di sotto della media europea. Anche in questo caso, il governo non sembra voler farsi carico del problema. Cosa propone il PD e quanto è importante secondo lei lavorare su questo settore per rendere la scuola più equa e funzionante?

I docenti hanno perso il loro ruolo sociale e questo è un dramma per il Paese. Per restituirgli la dignità del ruolo vanno trattati come professionisti del sapere e questo significa formarli, selezionarli e retribuirli meglio. Valorizzazione e motivazione passano da ciascuno di questi passaggi. Occorrono un riconoscimento economico adeguato ed una adeguata formazione iniziale ed in servizio. Una formazione iniziale che non preveda oneri economici eccessivi a carico dei partecipanti – come invece fa l’attuale che sta (con un ritardo di più di un anno e mezzo) prendendo avvio.  Credo che questo sia l’unico modo per una ridefinizione individuale e collettiva del ruolo dei docenti che sono la guida per lo sviluppo educativo, civico, culturale e professionale dei cittadini.  Noi avevamo provato a dare una risposta con la delega sulla formazione iniziale a cui lavorò Manuela Ghizzoni insieme al compianto Luciano Modica. Quella legge aveva messo in campo un’idea di formazione iniziale e reclutamento dei docenti strutturato e a carico dello Stato che la destra- appena andata al governo- ha eliminato. La formazione iniziale dei docenti deve avere una specializzazione di livello e pagata in maniera adeguata e su questo continueremo a sollecitare il governo perché i costi dei percorsi iniziale siano il più possibile gratuiti e, in ogni caso, a costi contenuti.

Per concludere, le vorrei chiedere un commento su quanto accaduto nei giorni scorsi. Sull’onda emotiva del femminicidio di Giulia Cecchettin, il ruolo della scuola come grande soggetto educativo e culturale è tornato al centro del dibattito. Si parla di educazione all’affettività. Quello della conoscenza del corpo, delle emozioni, dei rapporti è sicuramente uno dei vuoti più grandi della scuola di oggi. Come si riempie questo vuoto?

Sarebbe importante, per prima cosa, che su questo tema la politica fosse unita e non utilizzasse in modo ideologico una grande questione di questo tempo. La violenza in crescita tra i giovani ci deve interrogare profondamente sui cambiamenti antropologici, sociali e relazionali che stanno attraversando la nostra società. Stiamo affrontando un’emergenza senza precedenti. Ma le famiglie e le scuole fanno fatica a dare delle risposte. Non bisogna aver paura di parlare di alfabeti emotivi ed è urgente lavorare su un processo di alfabetizzazione che aiuti i ragazzi a comprendere e leggere le proprie emozioni e quelle degli altri.  La scuola è un luogo fondamentale dove iniziare a coltivare questa alfabetizzazione: insegnare ai ragazzi cosa sono le emozioni, a cosa servono, come si esprimono e come si possono gestire. Si tratta di una competenza fondamentale per l’adattamento sociale e relazionale di ogni essere umano. La crescita emotiva e cognitiva sono entrambe elementi indispensabili nella costruzione della personalità. In questo compito è necessario coinvolgere ed impegnare concretamente le famiglie, in un’alleanza concreta e reale tra le agenzie educative. Mi auguro che in questi mesi, abbandonata la propaganda, si voglia davvero investire sugli strumenti di sensibilizzazione, di educazione all’affettività e di lotta agli stereotipi. Nel 2013 l’Italia è stata tra i primi paesi a ratificare la convenzione di Istanbul: siamo partiti da lì per mettere in campo una serie di misure all’insegna delle tre “P”, punizione, protezione e prevenzione. E proprio in materia di prevenzione nel 2017 sono state tracciate dall’allora Ministra Fedeli le linee guida sull’educazione al rispetto. Faccio un invito al governo: non cancelliamo quell’esperienza per furore ideologico e per piantare una bandierina politica. Lavoriamo insieme per implementarle attraverso finanziamenti adeguati e il supporto alle scuole nella realizzazione dei progetti strutturali.

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